sabato 28 aprile 2007

"KUMI, ORI...": GERUSALEMME NELLA POESIA DI PAUL CELAN - PAUL CELAN A GERUSALEMME


“KUMI, ORI…”
GERUSALEMME NELLA POESIA DI PAUL CELAN –
PAUL CELAN A GERUSALEMME

di Lorenzo Gobbi

Libreria pagina Dodici (Verona), 28 aprile 2007

Nella raccolta completa delle liriche di Paul Celan, un gruppo spicca tra tutte, alla fine, quasi del volume che le raccoglie: è il cosiddetto “ciclo di Gerusalemme”, inserito nella raccolta postuma Zeitgehöft (Dimora del tempo, 1976). Si tratta di 20 poesie, composte per lo più a Parigi alla fine del 1969, appena dopo il viaggio che portò Celan in Israele, nell’ottobre 1969. Pochi mesi dopo, nel maggio del 1970, Celan porrà termine alla propria vita gettandosi nella Senna dal ponte Mirabeau. Il viaggio a Gerusalemme, nota Franceco Camera (Paul Celan. Poesia e religione, Il Melangolo, Genova 2003, p. 120; si tratta di uno studio davvero prezioso), “rappresenta una tappa obbligata, inscritta nel destino personale del poeta e che quindi conclude idealmente l’intero percorso biografico e intellettuale di tutta una vita”.
L’edizione italiana di riferimento è apparsa nei “Meridiani” Mondadori: Paul Celan, Poesie, Milano 1998, a cura di Giuseppe Bevilacqua. E’ un’edizione meritoria, sotto mille aspetti, ottimamente introdotta dallo stesso Bevilacqua (le cui Letture celaniane pubblicate dall’editore fiorentino Le Lettere restano un punto fermo nel panorama italiano); purtroppo, il volume è molto carente nel commento, ridotto all’osso secondo la linea editoriale della collana - mentre la poesia di Celan sembra concepita per far sorgere altra parola in risposta, e pare chiedere, a volte, alcune delucidazioni per poter entrare in dialogo con il lettore; il “ciclo di Gerusalemme” si trova alle pp. 1303-13043. Recentemente, Einaudi ha pubblicato il lascito inedito Sotto il tiro di presagi, a cura di Michele Ranchetti, Torino 2004).

Zeitgehöft raccoglie poesie composte tra il settembre del 1968 e l’aprile del 1970, che Celan aveva ordinato in tre cartelle, non necessariamente in vista della pubblicazione; il “ciclo di Gerusalemme” costituisce, nella sua autonomia, la cartella centrale. Per la lettura e l’interpretazione dei testi, è fondamentale la testimonianza di Ilana Schmueli, che delle poesie è destinataria non solo ideale, ma reale: essa è pubblicata in Italia nel volume Di’ che Gerusalemme esiste. Su Paul Celan: ottobre 1969 – aprile 1970, a cura di Jutta Leskien e Michele Ranchetti, Quodlibet, Macerata 2002, e si presenta come un memoriale dell’amicizia tra la Schmueli stessa e Celan, imperniato intorno al viaggio del poeta in Israele e accompagnato da una lettura personale delle poesie del “ciclo” (delle quali la Schmueli ha conservato gli originali, per poi donarli al fondo dei manoscritti di Celan costituito presso il Deutsche Literaturarchiv di Marbach). La Schmueli, nata a Cernowitz come Celan, sopravvissuta alla Shoa che ha distrutto il loro comune mondo e vissuta in Israele dalla fine della guerra, accolse il poeta, la cui amicizia aveva ritrovato, a Gerualemme; egli interruppe improvvisamente il soggiorno e tornò a Parigi, dove la donna lo raggiunse, per tornare poi in Israele; ancora inedito, ma in via di pubblicazione, è il loro carteggio. Il racconto della Schmueli è pacato, intenso, vibrante di un dolore trattenuto, appena suggerito; e fornisce gli elementi necessari a gustare le poesie del “ciclo” nella loro scabra bellezza. Non si tratta solo di elementi extratestuali: Celan, ci conferma la Schmueli, “voleva essere letto nel modo più personale”. Scriveva: “io non faccio letteratura… non c’è una sola riga della mia poesia che non abbia a che fare con la mia esistenza” (citato da I. Schmeuli nel volume Di’ che Gerualemme…, pp. 23-24); “le poesie – ci conferma l’amica d’infanzia del poeta – erano per Celan la via più diretta, più chiara per comunicare se stesso al tu. Trovava sempre un tu concreto, di cui aveva bisogno, per lui importante, al quale parlare della sua acuta esperienza” (I. Schmueli, Di’ che Gerusalemme…, p. 36).

Quattro premesse sono necessarie: un’indicazione su come Celan, con ogni probabilità, voleva essere letto; una breve nota biografica su Celan; una riflessione sul suo rapporto con l’ebraismo dell’Europa dell’Est, attraverso la lettura di alcune liriche; e un cenno a quali siano la presenza e il significato di Gerusalemme nella cultura ebraica. Solo allora, chiarite nei limiti del possibile queste prospettive, si potrà porsi in ascolto delle poesie del “ciclo di Gerusalemme” per cogliere le ragioni e il significato del viaggio di Celan.
(Traggo alcuni di questi spunti da miei lavori precedenti o in via di pubblicazione).

1. LEGGERE E TRADURRE CELAN
Quanto al tradurre e interpretare Celan, credo che vada accolto senza esitazioni ciò che afferma Francesco Camera: “Va sempre tenuto presente che l’obiettivo del comprendere non è quello di arrivare ad una spiegazione definitiva del testo, bensì il ‘prender parte’ ad un processo infinito che porta ad ampliare lo spazio di risonanza del testo e ad arricchire di senso quanti partecipano a questo processo. [...] L’interprete non tende infatti a costruire un ‘suo’ testo nella forma di un commento da porre estrinsecamente vicino al testo che interpreta, ma in atteggiamento di pietas ermeneutica si pone esclusivamente a servizio del testo. [...] Infatti, ‘l’interpretazione di una poesia è esatta solo quando alla fine è in grado di scomparire completamente perché è entrata a formare una nuova esperienza della poesia stessa’” (Francesco Camera, Introduzione, in Hans Georg Gadamer, Chi sono io, chi sei tu. Su Paul Celan, Marietti, Genova 1989, traduz. di Franco Camera, p. XV-XVI).
La lettura di Celan è partecipazione intima, degustazione (her sich ejn...), apertura di sé perché il dono della parola trovi un terreno e possa dare frutti: si legge con amore, mettendo a disposizione se stessi come un tu necessario. Ciò che accogliamo non è solo la testimonianza di qualcosa che è avvenuto – anche questo: ciascuno può leggervi la propria storia, esattamente come si è svolta, oltre alle vicende di Celan stesso, della sua famiglia e di tutto Israele. Ciò che ci viene incontro è una parola viva, che può irrigare e diffondere sementi, che sa arare e potare perché tutto diventi fecondo – da qui la sua durezza, a volte, o la sua dolcezza di gesto; da ciò l’esattezza sapiente della sua presenza. Nella vita di ciascuno, la parola vera di Celan può far nascere una nuova realtà, aperta al futuro: vuole esattamente questo. Così è con la Torah: si legge – cioè, si ascolta – esattamente per questo. Nota M.A. Ouaknin, a proposito della lettura ebraica della Scrittura e del Midràsh in particolare: “Definiamo questo modo di essere, questo rapporto con il testo, ‘carezza’. ‘La carezza consiste nel non impadronirsi di niente, nel sollecitare ciò che sfugge continuamente dalla sua forma verso un avvenire - mai abbastanza avvenire - nel sollecitare ciò che si sottrae come se non fosse ancora’. Insomma, la carezza è ricerca. In questa ricerca, la carezza non sa ciò che cerca” (M. A. Ouaknin, La lettura infinita, p. 97). “Le mie poesie implicano il mio ebraismo”: credo che questa affermazione di Celan vada molto al di là di una semplice indicazione di contenuti o di ispirazione, ma coinvolga l’atteggiamento profondo di chi scrive e di chi legge – cioè, la cifra ermeneutica del testo e la sua stessa ragion d’essere.
La parola esatta, dunque, è la parola “giusta”, nel senso dell’ebraico tzaddìk: la lettura e l’interpretazione di Celan sono un fatto etico prima che estetico o conoscitivo. Lo tzaddìk, afferma il Salmo 1, sta come un albero in riva all’acqua: le sue radici ne assorbono, a poco a poco, costantemente; ed egli darà al tempo esatto il proprio frutto, secondo la propria natura. Il fiume, lo tzaddik se lo può scegliere: in ciò sta il suo merito - se è poi davvero un merito poter accogliere una grazia.
La traduzione (cioè, l’interpretazione) viene di conseguenza, e resta aperta. Non c’è una verità oggettiva, quanto piuttosto una verità relazionale: una relazione autentica, un ascolto reale qui e oggi, un amore attento: una fedeltà (‘emunà).


2. PAUL CELAN: PROFILO DI UNA VITA
Paul Antschel (adotterà poco dopo la fin della guerra lo pseudonimo di Paul Celan, ottenuto anagrammando il proprio cognome, che andrebbe di conseguenza pronunciato “Célan”, e non “Zélan”, alla tedesca, come di consueto; come Paul Celan, inoltre, il poeta acquisirà la cittadinanza francese nel 1955, e da allora sarà per i suoi conoscenti e allievi mounsier Celan, pronunciato “Selàn”, alla francese) nasce nel 1920 a Czernowitz, Bucovina, Romania, da famiglia ebrea ortodossa e viene educato nell’ortodossia religiosa, cioè alla lettura della Torah e del Talmud (la lingua dell’ambiente familiare e cittadino è lo yiddish, mentre la madre è di madrelingua tedesca; l’ebraico, lingua sacra, è la lingua della Scrittura e della liturgia ebraica, che è tanto sinagogale quanto familiare; la lingua del Talmud, com’è noto, è l’aramaico); il padre Leo, con cui il giovane Paul vivrà un difficile conflitto generazionale e ideologico, era seguace di un’ortodossia rigorosa e fervente sionista militante. Nel 1938, soggiorna a Parigi e a Tours per un anno, studiando medicina; al suo ritorno, la Bocovina viene annessa all’Ucraina sovietica, per effetto del trattato tra Hitler e Stalin; con ciò, deve restare a Czernowitz, dove si iscrive alla facoltà di Lettere. Nel 1940, Czernowitz vive una calma relativa; Celan ha una profonda relazione con Ruth, attrice di teatro yiddish. Nel 1941, le truppe romene e hitleriane entrano in Bocovina: la sinagoga è incendiata, gli ebrei perseguitati; viene eretto un ghetto, dove vengono stipate 45mila persone; dal ghetto iniziano le deportazioni; il poeta resta a Czernowitz, in una squadra addetta alla rimozione delle macerie. Nel giugno 1942 inizia una nuova ondata di deportazioni, con rastrellamenti di ebrei puntualmente programmati dalle SS nei fine settimana; cerca di convincere i genitori a nascondersi, come lui fa con Ruth, ma essi restano nella loro casa da dove vengono prelevati il 28 luglio e portati prima in un campo di lavoro, poi in un lager ucraino. Celan viene arruolato in un battaglione di ebrei inviato in Valacchia per la costruzione di un lager, e vi resta fino al 1944. Riceve la notizia della morte dei genitori, l’uno ucciso dal tifo, l’altra da un colpo di pistola alla nuca perché non più in grado di lavorare. Nel febbraio del 1944 riesce a rientrare in città; all’invasione sovietica, si offre come aiutante in ospedale psichiatrico per evitare altri arruolamenti. Torna ad abitare nella casa di famiglia; tornano i superstiti delle deportazioni in Ucraina. Nel 1945 si reca a Bucarest, dove lavora per una casa editrice traducendo dal russo in rumeno, in ambiente culturale vivacissimo. E’ un periodo di amori brevi e travolgenti: il rapporto con Ruth si è trasformato in confidente amicizia, e durerà nel tempo come tale. Nel 1947 raggiunge fortunosamente Vienna, dove pubblica alcune poesie e dove si lega intimamente a Ingeborg Bachmann, per la quale, tra l’altro, scrive Corona. Nel 1948 esce a Vienna una prima raccolta, Der Sand aus der Urnen (La sabbia nelle urne), ma Celan ne chiede il ritiro a causa dei numerosissimi refusi. Nel luglio del 1948 raggiunge Parigi. Nel dicembre del 1952 esce Mohn und Gedächtnis (Papavero e memoria), che raccoglie, attentamente selezionate, le poesie composte fino ad allora, articolate in quattro sezioni.
Dopo un periodo difficile, consegue la Licence ès-Lettres presso l’École Normale Superieure, sposa Gisele Lestrange (francese di famiglia cattolica), ha due figli, uno dei quali muore pochi giorni dopo la nascita, chiede e ottiene nel 1955 la cittadinanza francese, insegna come lettore di lingua tedesca presso l’università, traduce dal francese e dal russo in tedesco. Nel 1955 esce Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia), che reca una dedica semplicissima e carica di significato: Für Gisèle (non an, bensì für: un libro per lei, perché le possa concretamente servire, nato con lei, preparato per lei, donato a lei nella concretezza, come qualcosa di necessario o salvifico). All’inizio di ottobre 1969, dopo aver meditato a lungo, visita Israele: è un soggiorno breve, ma che lo segna nell’intimo. Interrompe improvvisamente il soggiorno e riparte per Parigi il 17 ottobre. Anche qui, il rapporto con una donna (Ilana Shmueli, originaria di Czernowitz, ritrovata in Israele dopo molti anni; Ilana ne ha reso testimonianza nel suo libro delicatissimo) si salda con una riflessione fortemente emozionale sulla propria identità ebraica.
Chiuso sempre più in una solitudine intollerabile, soggetto a episodi depressivi molto pesanti, nonostante i tentativi di cura, Celan si uccide nel 1970, gettandosi nella Senna; così si sono tolti la vita altri sopravvissuti della Shoa: Bettelheim, Amery, Primo Levi.


3. “LA MIA POESIA IMPLICA IL MIO EBRAISMO” (P. CELAN): ALCUNE LETTURE
L’ebraismo, per Celan, è cultura e tradizione, identità problematica e profonda che nulla cancella, motivo d’esilio, fonte di estraneità insanabile nei confronti dell’Europa tanto prima quanto dopo la Shoa; è anche memoria dei morti, ricordo di un mondo perduto, al quale il solo poeta, assieme a pochi altri, è sopravvissuto. L’ebraismo hassidico della Bucovina, inoltre, lascia in dote a Celan, educato alla lettura della Torah e del Talmud, al Midrash, all’Aggadah, un particolare rapporto con il testo scritto, e un peculiare modo di intendere tale relazione.
Alcune poesie si prestano bene a illustrare il delicato e complesso rapporto tra Celan e l’ebraismo.
Nelle poesie del primo periodo, assieme alle liriche direttamente imperniate sull’esperienza della Shoa e ad essa contemporanee o di poco posteriori, incontriamo liriche d’amore caratterizzate da un prepotente, diffuso erotismo, in cui la totalità della passione carnale è espressa in originalissime immagini (si veda, ad esempio, Erinnerung an Frankreich, Ricordo di Francia); ma è nel periodo di Bucarest e poi compiutamente nell’anno viennese e nel primo periodo parigino che la lirica d’amore si salda al ricordo dei morti e della persecuzione, in una tensione ricca di fascino: la vita urge, la memoria chiama; la vita nuova non può prescindere dal ricordo e dalla testimonianza, ma come vivere dopo ciò che è accaduto senza divenire ingiusti? La vita nuova rischia di essere “papavero”, oppio o droga che esorcizza la memoria e le impedisce di rimanere nella coscienza – ma quale vita è ancora legittima? Tutto è stato cancellato, tutto è perduto: come può vivere fuori da quel mondo, lontano, chi in esso era nato?
Una delle liriche più intense è del periodo viennese, dedicata a Ingeborg Bachmann (possiamo ascoltarla letta dalla sua voce, all’indirizzo web www.geocities.com/Athens/Chariot/3474/voice.htm).


CORONA
(da Mohn und Gedächtnis, in Paul Celan, Poesie, a cura di G. Bevilacqua, “I Meridiani” Mondadori, Milano 1998, p. 58)

Aus der Hand frisst der Herbst mir sein Blatt: wir
sind Freunde.
Wir Schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren
sie gehen:
Die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der
geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in der Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns
zu von der Sraße:
Es ist Zeit, das man weißt!
Es ist Zeit, das der Stein sich zu blühen bequemt,
dass der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, das es Zeit ist.

Es ist Zeit.


CORONA
da Papavero e memoria (Traduzione di L. Gobbi)

Dalla mano l’autunno mi bruca una foglia:
è sua, siamo amici.
Facciamo sgusciare il tempo via dalle noci e gli
insegniamo ad andare:
il tempo si dirige all’indietro, nei gusci.

Nello specchio è domenica,
nel sogno potremo dormire,
la bocca in verità conversa.

Il mio occhio corre giù, fino al grembo
dell’amata:
ci guardiamo a vicenda,
ci diciamo oscure parole,
ci amiamo l’un l’altra come papavero e memoria,
dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel chiaro-sangue di luna.

Abbracciati, stiamo alla finestra, ci vedono
su dalla strada:
è tempo, che si sappia!
E’ tempo, che la pietra si disponga a fiorire,
che l’ansia un cuore possa colpire.
E’ tempo, che sia tempo.

E’ tempo.


In autunno, Celan ricevette la notizia della morte della madre: ma la presenza dell’amata sa rendere amico anche l’autunno, mansueto ora come un animale domestico che bruchi dalla mano dell’uomo qualcosa che è per lui. Con lei, Celan tenta di educare il tempo, di insegnargli ad andare avanti: ma esso torna sempre all’indietro, ha un guscio suo dal quale non vuole uscire, come un guscio di noce, il frutto dell’autunno: subito, il tempo che la relazione d’amore tenta di incamminare verso il futuro, torna nella sua dimora autunnale – nella memoria dei morti. E’ tempo di riposo, tempo sacro per i gentili (domenica), e dunque di riposo feriale per un ebreo: finalmente si dorme davvero quando si sogna (il sonno è tranquillo, il sogno di quanto è accaduto non lo turba più), e si può conversare dicendo la verità all’amata, senza dover nascondere né mentire.
Lo sguardo scende al grembo di lei: Geschlecht è sì il sesso femminile nella sua concretezza, ma anche il grembo, addirittura la stirpe, la famiglia, l’etnia; il grembo della donna non dà solo piacere, ma anche genera vita e trasmette identità – è a questo che il poeta guarda, nell’immediatezza del desiderio amoroso ma anche nella compresenza dei significati. L’amata e il poeta sono come “papavero e memoria” e come tali si amano: la dolcezza di lei è l’opposto della dura memoria di lui, e tenderebbe ad annullarla. Uno slancio di speranza, una fiducia istintiva li travolge entrambi: “è tempo che si sappia”, che tutti li vedano nella cornice della finestra, che l’amore sia reso pubblico e dunque consacrato e rispettato da tutti, da tutti riconosciuto – è tempo che l’amore sia legittimo, “che la pietra si disponga a fiorire”: che la vita rinasca, e che questa rinascita non sia un tradimento ma un’obbedienza, un atto di giustizia creaturale. La pietra è la lapide che copre i morti e ne segnala la presenza, ricordandone i nomi: è lei che può fiorire, se solo si dispone a farlo – ed è tempo che ciò accada, almeno nella speranza a cui il poeta, grazie all’amata, si abbandona per un istante. “E’ tempo che sia tempo”: che accada un nuovo inizio – come a Kippur, quando il mondo ricomincia dallo squillo dello shofar, e tutto è come appena creato. Ciò che è stato rimane; e ciò che esiste può cominciare ad esistere legittimamente, senza colpa alcuna.

All’erotismo del primo periodo, nelle poesie degli anni ’50 si sostituisce un tono caldo d’affetto; la tematica amorosa si fa tematica familiare, e viene a comprendere il patto nuziale, la casa, la paternità, sempre in relazione alla memoria e alla testimonianza. Il linguaggio comincia ad apparire in evidenza come nucleo problematico: una vera e propria critica, in senso kantiano, alle possibilità rimaste alla parola umana, che si svilupperà nelle raccolte successive.
L’incipit di Di soglia in soglia ci dà già le coordinate fondamentali: ora che Gisèle è moglie, cioè si trova ad essere consacrata al marito, il suo compito è confermato, e rafforzato il suo ruolo; Gisèle, la “straniera”, la non-ebrea, è colei che può offrire una casa all’ebreo disperso, e salvare quel poco di mondo ebraico che egli riesce a portare con sé.


ICH HÖRTE SAGEN
Da Von Schwelle zu Schwelle, in Paul Celan, Poesie, p. 136.

Ich hörte sagen, es sei
im Wasser ein Stein und ein Kreis
und über dem Wasser ein Wort,
das den Kreis um den Stein legt.

Ich sah meine Pappel hinabgehn zum Wasser,
ich sah, wie ihr Arm hinuntergriff in die Tiefe,
ich sah ihre Wurzlen gen Himmel um Nacht flehn.

Ich eilt ihr nicht nach,
ich las nur vom Boden auf jene Krume,
die deines Auges Gestalt hat und Adel,
ich nahm dir die Kette des Sprüche vom Hals
und säumte mit ihr den Tisch, wo die Krume nun
lag.

Und sah meine Pappel nicht mehr.


HO SENTITO DIRE
Da Di soglia in soglia (Traduzione di L. Gobbi)

Ho sentito dire, che sia
nell’acqua una pietra e un cerchio,
e sopra l’acqua una parola
che posa il cerchio intorno alla pietra.

Ho visto il mio pioppo andare giù nell’acqua,
ho visto, come il suo braccio s’aggrappava giù nel
profondo,
ho visto le sue radici piangere verso il cielo nella
notte.

Io non corsi nella sua direzione,
io trassi da terra quella briciola,
che del tuo occhio ha figura e fierezza,
dal collo ti presi la catena dei detti
e con lei feci l’orlo alla tavola, dove stava adesso
la briciola.

E ho visto il mio pioppo non più.


Se la prima quartina è un po’ enigmatica, non c’è da spaventarsene: l’acqua sormontata da una parola ci riporta a un contesto di creazione, di inizio del tempo presente; la pietra può essere la lapide che copre i morti (spesso è in questa accezione, come in Corona – o almeno, a questo fa pensare), il cerchio il destino di chi resta nel tempo dei vivi, nel tempo nuovo iniziato con la strage, a circondare i morti, a far loro da tardiva quanto inutile difesa – tardiva, ma giusta e imprescindibile: questo è importante. (Celan espressamente voleva – giova ripeterlo – che le sue poesie fossero lette nel modo più personale, cioè fossero accolte, meditate e lasciate germogliare nel tempo, senza alcuna foga interpretativa, ma solo nel desiderio di relazione; voleva che la lettura fosse simile a un midrash, e che ne scaturisse non solo consapevolezza del passato e autenticazione della testimonianza del poeta, ma anche e soprattutto vita nuova per chi leggesse). Il pioppo è il paese natale, in cui quest’albero abbonda assieme al gelso (che ritorna in altre liriche, come nel ciclo Atemkristall). La creazione del tempo presente, dunque, e la costituzione della memoria come cerchio attorno alla pietra che copre i morti, coincide con la distruzione del pioppo: sommerso a forza, esso greift, si aggrappa spasmodicamente in cerca di salvezza, ma ciò a cui si aggrappa è il profondo, perché è stato sommerso a testa in giù; le radici piangono al cielo, intorno è la notte: tutto è capovolto, e non c’è salvezza.
Solo una briciola resta: un rimasuglio minimo, ma capace di nutrire, che dev’essere conservato: è necessaria un’altra tavola ebraica perché la briciola sussista. Il tu è qualcuno che è stato sommerso, che era nel pioppo: la madre, senz’altro. Da lei, con un atto consapevole, il poeta eredita e accetta la “catena dei detti”, cioè la tradizione ebraica: pensiamo ai cicli (Pirqe Avot, Mishnà, Talmud, Gemarah…) in cui l’insegnamento dei maestri d’Israele è ordinato come una vera e propria catena di detti, saldati l’uno all’altro in un tutto organico che salda le generazioni l’una all’altra attraverso i millenni. Allo stesso modo, consapevolmente e volontariamente, il poeta raccoglie la briciola e la mette su una tavola. E’ la donna che prepara la tavola perché la vita ebraica possa essere celebrata nella famiglia (la vita religiosa ebraica ha come protagonista la famiglia e la comunità, non il singolo individuo), ed è lei che accende i lumi di Shabbat (al tramonto del venerdì, cioè all’ingresso dello Shabbat: solo la donna può accenderli, e accogliere così lo Shabbat). Gisèle è coinvolta, perché questa è la prima lirica di un libro dedicato a lei, per lei: qui viene espressa la condizione dell’amore tra Gisèle e Celan, o meglio: viene descritto il terreno su cui la loro casa sorge. Ella, preparando la casa e donando casa all’ebreo disperso, garantirà l’unica sopravvivenza possibile alla vita ebraica di allora, quella stessa che è stata sommersa e della quale resta un sola “briciola”.
Gisèle “dischiude la casa”.

Il rapporto con l’identità ebraica, dunque, nella dimensione della memoria e del presente, ma anche nella fondazione di un futuro, è centrale nell’esperienza di Celan – di colui che poteva dire di sé, con piena ragione: “Io non faccio della letteratura”. L’atteggiamento di Celan nei confronti del mondo paterno è critico fin dagli anni Quaranta, ma la memoria dei familiari uccisi e del mondo distrutto, che diventa acutissimo senso di colpa, fa sì che la vicenda biografica sia sempre inserita nella percezione di un destino sovrapersonale, cioè in quello del popolo ebraico (si veda F. Camera, Paul Celan. Poesia e religione…, p. 121ss). Il conflitto tra fedeltà e assimilazione, tra un’impossibile coerenza (il mondo perduto non può essere in alcun modo ritrovato; eppure, il sopravvissuto è per quel mondo l’unica speranza di sopravvivenza) e un’altrettanto impossibile allontanamento dall’identità profonda (Celan sposa una non-ebrea; i suoi figli, di conseguenza, non sono ebrei; con lui si interrompe “la catena dei detti”, la tradizione si arresta), resta sotteso a tutta la sua riflessione, ed esplode a tratti in modo lancinante – lo testimoniano le poesie per Giséle, in particolare Mit wechselndem Schlüssel e Vor einer Kerzen.

MIT WECHSELNDEM SCHLÜSSEL
Da Von Schwelle zu Schwelle, in Paul Celan, Poesie, p. 188.

Mit wechselndem Schlüssel
schließt du das Haus auf, darin
der Schnee des Verschwiegenen treibt.
Je nach dem Blut, das dir quillt
aus Aug oder Mund oder Ohr,
wechselt die Schlüssel.

Wechselt dein Schlüssel, wechselt das Wort,
das treiben darf mit den Flocken.
Je nach dem Wind, der dich fortstößt,
ballt um das Wort sich der Schnee.

CON CHIAVE CHE MUTA
Da Di soglia in soglia (traduz. L. Gobbi)

Con chiave che muta
dischiudi tu la casa, e dentro
si spinge la neve di ciò che è taciuto.
In direzione del sangue che ti sprizza
da occhio o bocca o orecchio,
muta la tua chiave.

Muta la tua chiave, muta la parola
cui è permesso entrare con i fiocchi.
In direzione del vento, che via ti sospinge,
la neve si addensa intorno alla parola.


Gisèle deve trovare di volta in volta la chiave giusta perché la casa sia aperta, e con dolore (v. 3-5): ciò non può non accadere, perché “la neve di ciò che è taciuto” si spinge dentro la casa, e con essa una parola alla quale “è permesso entrare con i fiocchi” – è un tema, questo della parola, che Celan svilupperà molto nelle raccolte seguenti. La neve, tipica del paesaggio invernale della Bucovina, torna spesso a ricordare i morti, abbandonati e nascosti nel silenzio e nel gelo, ed ora “si addensa intorno alla parola”.
(Il tema ritorna, nella sua complessità, in un’altra stupenda poesia di Di soglia in soglia, dal titolo Dove è ghiaccio, alla p. 158 dell’edizione dei “Meridiani”: tra l’amata e il mondo perduto vi sono delle affinità, perché essa ha intorno “un alito di fuoco”, che ricorda il roveto ardente di Mosé, e il suo nome è “cosparso di un chiarore di cenere” come i capelli di Sùlamit in Todesfuge. A lei viene chiesto di accettare una parola e di ripeterla all’infinito con il poeta, di trattenerla).

Alla madre sommersa nella Shoa, Celan si rivolge direttamente per ottenere la benedizione per Gisèle.


VOR EINER KERZEN
Da Von Schwelle zu Schwelle, in Paul Celan, Poesie, p. 184-186.

Aus getriebenem Golde, so
Wie du’s mir anbefahlst, Mutter,
formt ich den Leuchter, daraus
sie empor mir dunkelt inmitten
splitternder Stunden:
deines
Totsein Tochter.

Schlank von Gestalt,
ein schmaler, mandeläugiger Schatten,
Mund und Geschlecht
Umtanzt von Schlummergetier,
entschwebt sie dem Klaffenden Golde,
steigt sie hinan
zum Scheitel des Jetzt.

Mit nachtverhangnen
Lippen
sprach ich die Segen:

Im Namen der Drei,
die einander befehden, bis
der Himmel hinabtaucht ins Grab der Gefühle,
in Namen der Drei, deren Ringe
am Finger mir glänzen, sooft
ich den Bäumen im Abgrund das Haar lös,
auf daß die Tiefe durchrauscht sei von reicherer
Flut -,
im Namen der ersten der Drei,
der aufschrie,
als es zu leben galt dort, wo vor ihm sein
Wort schon gewesen,
im Namen des zweiten, der zusah und weinte,
im Namen des dritten, der weiße
Steine häuft in der Mitte, -
Sprech ich dich frei
von Amen, das uns übertäubt,
von eisigen Licht, das es säumt,
da, wo es turmhoch ins Meer tritt,
da, wo die graue, die Taube
aufpickt die Namen
diesseits und jenseits des Sterbens:
Du bleibst, du bleibst, du bleibst
Einer Toten Kind,
geweiht dem Nein meiner Sehnsucht,
vermählt einer Schrunde der Zeit,
vor die mich das Mutterwort führte,
auf daß ein einziges Mal
erzittre die Hand,
die je und je mir ans Herz greift!

DI FRONTE A UNA CANDELA
Da Di soglia in soglia (traduz. L. Gobbi)

D’oro lavorato a martello, così
come tu mi hai ordinato, madre,
ho dato forma al candelabro, da cui
lei verso l’altro per me si fa tenebra, tra
ore scheggiate:
del tuo
essere morta, figlia.

Esile d’aspetto,
un’ombra lieve, dagli occhi a mandorla,
bocca e grembo
attorno a cui danzano animali del sonno,
sguscia via nell’aria dall’oro che s’apre,
sale verso l’alto
fino al culmine dell’oggi.

Con labbra velate
di notte,
pronuncio io la benedizione:

Nel nome dei Tre,
che l’uno con l’altro combattono, fino a quando
il cielo si tuffa giù nel sepolcro dei sentimenti,
nel nome dei Tre, i cui anelli
al dito mi brillano, ogni volta che
agli alberi, nell’abisso, libero le chiome,
così che ne risuoni il profondo di flutto
più ricco-,
nel nome del primo dei Tre,
che gettò un grido,
quando fu necessario vivere là, dove prima di lui
la sua parola già era stata,
nel nome del secondo, che fu presente e pianse,
nel nome del terzo, che bianche
pietre accatasta nel mezzo, -
io ti dico libera
dall’Amèn che ci stordisce,
dalla luce gelida che gli sta attorno,
là, dove alto come una torre cammina nel mare,
là, dove la grigia, la colomba
becchetta i nomi
al di qua e al di là del morire:
tu resti, resti, resti
bimba di una morta,
consacrata al no del mio struggimento,
sposata ad una spaccatura del tempo,
davanti alla quale mi condusse la parola materna,
così che una sola volta
tremi la mano
che ancora e ancora mi afferra al cuore!

Celan presenta Gisèle alla madre: ella sembra uscire dall’oro di una merorah fabbricata secondo le regole della Torah – che ne prescrive le dimensioni, la forma, il peso, le ornamentazioni, ma soprattutto la lavorazione: un unico pezzo d’oro lavorato a martello: una lavorazione diversa avrebbe reso la menorah inservibile per l’uso liturgico nel Tempio, dove essa ardeva di fronte all’Arca, nel luogo più santo, alla presenza immediata dell’Eterno. Gisèle e Celan si muovono, amandosi, nell’obbedienza alla Torah che caratterizza il mondo ebraico, personificato dalla madre. La sua figura è slanciata, secondo i canoni di bellezza enunciati nel Cantico; ella è bruna (è “ombra”, penso, in questo senso) come Sulamit; ha gli occhi a mandorla, cioè ha una forte affinità con il mondo ebraico. L’immagine della mandorla ricorre spesso: non è solo una connotazione somatica orientaleggiante, che viene a caratterizzare così l’ebraicità con un tratto di esotismo. Mandorla è, nel linguaggio dell’iconografia, quell’aura luminosa che circonda il divino che appare; nella mistica ebraica, è la fosforescenza che sola si può cogliere di Dio, secondo l’insegnamento dei cabalisti; il tema della mandorla, dunque, rimanda a un contesto teofanico, testimoniato anche altrove per Gisèle.
La sua libertà, di “sgusciare via” dall’oro della menorah, è qualcosa che Celan presenta alla madre come parte di Gisèle: la madre l’accetterà, perché Gisèle è “figlia del tuo essere morta”. Solo lo sradicamento e la privazione della famiglia e della comunità hanno portato l’ebreo Celan da Gisèle, ed ella può rispondergli e corrispondergli proprio in ragione della propria libertà profonda: nulla la vincola, neanche la menorah da cui pure esce, e alla quale rimane obbediente comunque. Non ebrea, Gisèle non è vincolata per identità di nascita: la sua libertà di entrare e uscire dalla menorah è un dato di natura, e fa parte di lei. Se si fa obbediente, è per propria scelta: per amare l’ebreo Celan.
Alla madre, Celan presenta la bocca e il grembo dell’amata, garantendo per loro: al di là della connotazione erotica della bocca e del grembo della donna, pienamente legittime nell’ottica ebraica (la moglie dev’essere gioia del marito, sotto tutti i punti di vista, come è scritto nella creazione; non c’è nulla di indelicato nel tener conto di questo aspetto anche parlando con la propria madre), essi sono inseriti nell’obbedienza ebraica: la preghiera, la relazione con Dio e con gli altri uomini da un lato (giusti e malvagi, nei Tehillim e nella letteratura sapienziale, si differenziano per un diverso modo di usare la bocca: il giusto per lodare e consigliare, il malvagio per mentire e ingiuriare. Inoltre, nessuno prega a bocca chiusa; i rabbini insegnano che nemmeno lo Shemà dev’essere pronunciato mentalmente, perché è scritto “ascolta”: il suono dev’essere fisicamente emesso perché lo si possa realmente sentire); e la generazione, la trasmissione dell’identità dall’altro (Gisèle non potrà trasmettere l’identità ebraica, che procede per via matrilineare).
La madre è morta: è il poeta a pronunciare la benedizione sulla sposa, che sarebbe spettata alla madre dello sposo. La benedizione sembra quasi una fusione tra lo schema cattolico dell’eucologia (la benedizione impartita nel nome della Trinità, con la motivazione per la quale si invoca ciascuno dei tre; motivazione che viene cercata in ciò che la teologia cattolica definisce storia della salvezza) e lo schema ebraico della berakah. I tre sono, secondo Bevilacqua, i Patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe. L’interpretazione personale è di regola nella berakah: bisogna dare del tu, nominare il Regno, ricordare i benefici dell’Eterno ricevuti oggi e nel passato, mettere del proprio. Se i Tre sono Abramo, Isacco e Giacobbe, l’interpretazione di Celan della storia d’Israele è molto chiara, e i Tre divengono testimoni della Shoa. Il primo, Abramo, è spaventato dalla chiamata divina e dalla promessa, al punto di mettersi a gridare, perché ne intuisce le conseguenze tragiche per la propria discendenza. Il secondo, Isacco, è presente è piange: viene alla mente il sacrificio a cui egli si prestò inerme - anche allora, fu semplicemente presente, e forse pianse; e, se non pianse allora, certamente pianse nella Shoa, a cui nulla si poteva opporre. Il terzo, Giacobbe, accatasta pietre, come se vivesse un lutto perenne: è il lutto per Giuseppe? Probabile, e poi per tutti i suoi discendenti, e soprattutto per l’ultima generazione perseguitata e decimata.
Non bisogna cercare qui un’interpretazione “oggettiva”: non ha senso, in questo contesto, chiedersi cosa esattamente il poeta volesse dire quando ha scritto questi versi, a prescindere da noi che leggiamo – la verità della poesia è per Celan verità relazionale, non meno vera di un presunta verità oggettiva, ma ben più coinvolgente. In questo consiste l’aspetto fondamentale del suo ebraismo nel concepire il testo scritto. In altre parole, non sussiste l’ipotesi di un significato che prescinda da noi che concretamente leggiamo, qui e oggi, e da ciò che può nascere nella relazione tra queste parole e la nostra vita reale: non solo testimonianza del passato, ma fondazione della mobilità del presente, cioè del futuro).
Nel nome della storia ebraica vista da dopo la Shoa, Celan dichiara Gisèle libera “dall’amèn che ci stordisce”: è l’Amèn del Kaddish, la preghiera ebraica del lutto, la cui recita è obbligatoria nel periodo che segue la morte di chi si ama, e che è scandita da una serie di “amèn” pronunciati coralmente da tutta la comunità. Il lutto, che nell’ebraismo è regolato da usanze molto rigide e molto restrittive, è ciò da cui Celan libera Gisèle, benedicendola a nome della madre e nel nome dei Patriarchi.
L’”amèn” è circondato da una luce gelida – forse perché rende sterili, ormai, cioè impedisce ogni fecondità d’amore e di relazione. Esso è immenso (turmhoch, “alto come una torre”), e cammina nel mare – il mare, nella tradizione ebraica, non ha nulla di positivo: è l’acqua sterile, salata, imbevibile, dimora del Leviatano e di altri mostri, dalla quale i viventi si guardano e la cui funzione è segnare il confine tra la terra assegnata all’uomo, alle piante e agli animali da un lato e un altro mondo dall’altro, separato e inconciliabile; esa reca l’impronta del tohu-wa-bohù, il caos primordiale; è un elemento ribelle, che solo Dio sa domare.
La colomba e il mare ricordano Noè e il diluvio: la strage appena conclusa delle creature. La colomba “becchetta i nomi” dei morti e dei vivi: una stessa pace avvolge coloro che sono al di qua e coloro che sono al di là del morire: essi sono un resto, una semente sminuzzata, tale che possa essere becchettata da una colomba; è difficile distinguere tra gli uni e li altri, diversi solo per dove si trovano rispetto al morire. La colomba ricorda anche il Cantico, dove è figura dell’amata; e la colomba abita nelle spaccature delle rocce.
Gisèle è consacrata a un no, che viene dallo struggimento, dal rimpianto per il mondo perduto (Sehnsucht, spogliata qui di ogni aura romantica): la formula del matrimonio ebraico è “io mi consacro a te”, e dunque Gisèle è sposata a questa condizione del marito, al “no” alla vita e alla gioia che la Sehnsucht gli impone – ed è nel nome di lei, nel nome della sua libertà dal lutto sancita dalla benedizione pronunciata davanti a una candela, che Celan può amare e vivere. Gisèle è sposata a una “spaccatura del tempo” (ricordiamo la colomba del Cantico che abita nelle fenditure delle rocce): Celan è questo, è tempo fatto persona, ma tempo scheggiato (cfr. v. 5), spaccato, lacerato. La relazione con Gisèle è questo miracolo di precario equilibrio tra estremi: a ciò il poeta è giunto in obbedienza alla parola materna – questo è il punto: il suo amore per Gisèle non è tradimento, ma obbedienza. E’ tzedakàh: giustizia. E’ ’emunàh: fedeltà.
“Davanti a una candela”: è la donna ad accendere i lumi di Shabbat; Hannuckà, la festa delle luci, ricorda uno scampato pericolo, e il ritorno di Davide al Tempio; S. Y. Agnon, nei Racconti di Kippur, ricorda l’uso di una candela accesa tra le mani di chi avesse subito un lutto nell’anno trascorso, durante la festa di Kippur; candele ardevano nel Tempio, e ardono ora nelle Sinagoghe e nelle case ebraiche. Nel mondo cattolico, a cui Gisèle apparteneva, le candele si accendono come culto ai santi, ma soprattutto come segno per i defunti, nelle chiese e sulle tombe. Stare “di fronte a una candela” non è come trovarsi in un luogo qualsiasi, né per un ebreo né per una cattolica; là soltanto può nascere questa preghiera di liberazione dal lutto e di benedizione cosmica pronunciata su Gisèle.

La lettura di Paul Celan – Nelly Sachs, Corrispondenza, Il Melangolo, Genova 1996 può aiutare a focalizzare l’importanza e l’urgenza di questi temi negli anni ’50: gli stessi anni in cui Israele muove i primi passi, dopo la propria nascita (avvenuta nel 1948). La precaria pace del 1949, se permetterà a Israele di esistere e di accogliere migliaia di ebrei provenienti dall’Europa, aveva privato però il nuovo Stato del proprio cuore pulsante: la città vecchia di Gerusalemme, rimasta dietro la Green Line, cioè sotto il controllo giordano, con il Muro del Tempio, la cittadella di Davide, la Tomba di Assalonne e la Valle di Giosafat, antico e ampio cimitero ebraico di fronte alla Porta della Misericordia o Porta d’Oro, attraverso la quale il Messia, secondo la tradizione, entrerà nella città assieme ai risorti; la Porta era stata murata; attraverso il cimitero ebraico, i Giordani avevano fatto passare una strada. Gerusalemme ebraica, dopo il 1949, era rimasta fuori dalle antiche mura, separata dal Muro, e cresceva verso ovest. La guerra del 1967 capovolse la situazione: Israele ottenne il controllo della città vecchia, e Gerusalemme tornò ad essere, con i suoi luoghi simbolici e la sua storia, il centro di Israele stesso; il vecchio quartiere ebraico fu abbattuto, e uno nuovo fu edificato.
Alla fine degli anni ’60, il fermento che la conquista israeliana di Gerusalemme aveva suscitato era grande, non solo in Israele, ma tra gli Ebrei di tutto il mondo. Celan, inoltre, grazie all’influenza della Sachs ma anche in obbedienza a una spinta interiore, si andava a poco a poco interessando sempre più vivamente alla mistica ebraica zoharica e hassidica, la stessa che permeava il suo ambiente giovanile e che gli studi di Martin Buber e Gershom Scholem (suo personale amico, quest’ultimo) gli facevano riscoprire. Una violenta campagna diffamatoria scatenata contro di lui da Claire Goll, che accusava Celan di aver plagiato le poesie del proprio defunto marito, acuì in Celan un senso di minaccia collegato al perdurare in Europa dell’antisemitismo, e alla possibilità di una sua ripresa – timori che inquietavano terribilmente anche la Sachs, minandone l’equilibrio psicologico: e non senza ragione. La nascita e l’affermazione di Israele, con la conquista di Gerusalemme, agirono in profondità su Celan: Israele trova la propria ragion d’essere, ancora oggi, nel porsi come rifugio e patria a difesa di tutti gli Ebrei del mondo, cioè unico luogo della terra in cui l’identità ebraica non sia minacciata ma tutelata nella concretezza e difesa efficacemente, anche con le armi. Tutto portava Celan a confrontarsi con la propria identità ebraica per chiarirne esattamente i tratti: il confronto con la tradizione religiosa e con la nuova realtà israeliana non poteva essere eluso; Gerusalemme ritrovata, nuovamente ebraica, raggiunta da una versione inaspettata e inedita delle promesse messianiche, lo attrasse inevitabilmente.

Quando Gerusalemme fu conquistata dalle truppe israeliane (2° semestre del ’67), Celan si trovava in clinica a causa di un forte stato depressivo: le poesie di quel periodo documentano l’ansia di un ritorno, di un ritrovamento di identità e radici. L’esito della “guerra dei sei giorni” (si veda l’ultima parte della raccolta Fadensonnen, Filamenti di soli) causò su di lui un’impressione profonda, come testimonia la poesia Denk dir (Pensa…), nella quale Celan contempla “il soldato di Masada” che “si procura una patria, nel modo / che mai potrà essergli tolto, / contro / ogni spina del reticolato” (si veda Camera, Paul Celan. Poesia…, pp. 129ss): Celan coglie esattamente il rapporto tra la nascita e lo sviluppo di Israele e la tragicità insuperabile della Shoa, che avrebbe reso di per sé impossibile qualsiasi ritorno e l’esistenza di una patria per gli Ebrei (l’inizio, infatti, è una manifestazione di stupore, e si ripete 4 volte: denk dir, pensa; l’espressione, in realtà, è qualcosa di simile al nostro “ma pensa un po’…”); inoltre, si coglie in Clan un atteggiamento mistico verso la terra e la città, una fede indeterminata nel “ritorno a Sion” come incredibile riscatto, nuovo affluire di forze a chi di tutto era stato privato, avvenuto incredibilmente, contro tutto e contro tutti, in un mondo pregiudizialmente e mortalmente ostile e dopo un passato di sofferenza e sterminio patito che avrebbe potuto rendere insperabile non solo qualsiasi ripresa della vita ebraica, ma addirittura la sua stessa sopravvivenza. Celan diffuse immediatamente questa poesia, sia presso la stampa tedesca (la inviò al “Neue Zurcher Zeitung”) sia presso diversi conoscenti in Israele, dove fu ulteriormente diffusa sia in tedesco che in traduzione ebraica.
Vale la pena di leggere attentamente questa poesia, che conclude Fadensonnen:


DENK DIR
(P. Celan, Poesie, p. 912)

Denk dir:
der Moorsoldat von Massada
bringt sich Heimat bei, aufs
unauslöschlichste,
wider
allen Dorn im Draht.

Denk dir:
die Augenlosen ohne Gestalt
führen dich frei durchs Gewühl, du
erstarkst und
erstarkst.

Denk dir: deine
Eigene Hand
Hat dies wieder
Ins Leben empor-
Gelittene
Stück
Bewohnbarer Erde
Gehalten.

Denk dir:
das kam auf mich zu,
namenwach, handwach
für immer,
vom Unbestattbaren her.


MA PENSA
(traduz. L. Gobbi)

Ma pensa:
il soldato di Massada, uomo di palude,
si procura patria, in modo
che mai gli potrà essere tolto,
contro
ogni spina nel reticolato.

Ma pensa:
i privi di occhi, senza più persona,
ti guidano libero attraverso la ressa, tu
ti fai forte, ancora
e ancora.

Ma pensa: la tua
mano, proprio la tua,
ha sostenuto questo nuovamente
alla vita risollevato
pezzo
di terra resa
abitabile.

Ma pensa:
questo giunse fino a me,
desto nel nome, desto nella mano,
per sempre,
da ciò che non può essere sepolto.


Ecco, Israele è contemplato misticamente: la conquista è per sempre, la terra di Israele (‘eretz Israel) è resa nuovamente abitabile per gli Ebrei; la sorte di aver visto tutto questo, di averlo ricevuto nella mano tesa e vuota, sostenendolo, desta lo stupore di una benedizione inattesa; lo stupore è segnato dal quadruplice “denk dir…”. Tutto è accaduto contro tutto e tutti, inaspettatamente, al di là di ogni speranza: a secoli di assimilazione o esilio, o di entrambi, segue il ritrovamento attivo (bring sich Heimat bei) di una patria – Heimat: più che patria: luogo di intimità e vicinanza a se stessi, di non-paura, di legittimità del vivere; luogo in cui si è riconosciuti; luogo in cui non si deve giustificare la legittimità della propria presenza. Tutto ciò viene dai sommersi: coloro che sono “privi degli occhi, senza più persona” (Gestalt: indica la figura, i lineamenti umani, ma anche l’identità), coloro che sono rimasti senza sepoltura hanno in questa conquista qualcosa di proprio: essa viene da loro; viene dal lutto che non può essere sotterrato, che non può essere negato né nascosto nelle profondità della terra, perché imbeve la terra; da esso viene il dono/conquista della terra. Da tutto ciò, questo dono inatteso giunge fino a Celan: è la possibità di avere ancora occhi e identità, di ritrovare figura; di esistere senza che venga contestata la legittimità dell’esistenza; di essere se stessi al di là di ogni speranza.
La riflessione sulla nascita e sull’espansione territoriale di Israele, a questo punto, potrebbe portarci molto lontano: basti osservare, però, che essa così fu sentita da milioni e Ebrei; e che il suo legame con la Shoa, nell’elaborazione di questo lutto immenso, rimane uno dei problemi dell’oggi, e rende ragione di molti aspetti della realtà israeliana.

L’amicizia ritrovata con Ilana Schmueli, divenuta israeliana dopo la guerra (cioè quando il poeta aveva, invece, accettato la diaspora e l’assimilazione), si colloca dunque in questo contesto.


4. GERUSALEMME NELLA CULTURA EBRAICA
E’ importante chiarire, a questo punto, attraverso una veloce carrellata, quali siano la presenza, il significato e l’importanza di Gerusalemme nella cultura e nella tradizione ebraica, senza pretesa di completezza né di originalità (traggo quanto segue dal mio volume Gerusalemme nella memoria di Amos Oz, Unicopli, Milano 2006).

“I primi Ebrei europei che si insediarono in Éretz Ìsra’el furono russi, nel 1882 – a seguito di una terrificante ondata di pogròm (nello stesso anno, con la conquista dell’Egitto, la presenza inglese si instaurò nella regione mediorientale). Benché il sionismo fosse un movimento essenzialmente laico, animato dall’ideale socialista, gli Ebrei che migrarono in Palestina nel 1902 (gli stessi che si misero all’opera per costruire Tel Aviv come città del nuovo ebraismo, libero dalle tradizioni religiose, lontano da Gerusalemme, dalle sue pietre e dai suoi rabbini) usarono il termine “seconda ‘aliyàh” per definire il proprio arrivo – e ‘aliyàh, “salita”, è termine carico di religiosità, intriso di ebraismo tradizionale: nei Salmi, ‘aliyàh è il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, alla quale si “saliva” in occasione delle feste, mentre nei Profeti è il ritorno a Sion dei deportati e degli esuli, per grazia (chésed) dell’Eterno. Nella preghiera quotidiana dell’Ebraismo, Gerusalemme è nominata ventuno volte; la cena di Pésah (“Pasqua”) e il digiuno di Kippùr terminano con l’augurio: “il prossimo anno a Gerusalemme”. Come ultimo atto del rito ebraico del matrimonio, lo sposo frantuma un bicchiere schiacciandolo sotto il tallone, in ricordo della distruzione del Tempio, e proclama su se stesso le parole terribili del Salmo 137: “Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra”. In Isaia, la voce dell’Eterno stesso afferma che, se anche accadesse che una donna si dimenticasse del suo bambino e non si commuovesse per il frutto delle sue viscere, Egli non dimenticherà mai Gerusalemme, le cui mura gli stanno sempre dinnanzi, la cui pianta Egli stesso ha disegnato – e che tutte le genti verranno a Gerusalemme, perché la pace e la giustizia che escono da Sion possano riversarsi su tutte le nazioni. Nei Salmi, Gerusalemme è il luogo che Dio ha scelto e amato; Egli lo custodisce, perché è la più santa tra le Sue dimore; è la gioia di tutta la terra, la città della bellezza, il culmine di ogni splendore; in essa Egli raduna i dispersi di Israele, e li consola. La tradizione rabbinica sottolinea fortemente la santità speciale di Gerusalemme: la Halakhàh (prassi religiosa ebraica) vi dedica grande attenzione, e buona parte delle mitzwòt (precetti religiosi) sono fatte per essere osservate solo in Éretz Ìsra’el, non essendo possibile osservarle altrove (per lo più, si tratta di norme legate al Tempio e ai prodotti della terra di Israele come Terra della Promessa). A Gerusalemme sono dedicati il digiuno del Nove di Av (tra luglio e agosto del calendario solare: le feste ebraiche seguono un calendario lunare), in memoria della distruzione del Tempio, e Channukhàh, la “festa delle luci”, che ricorda la nuova consacrazione del Tempio dopo la profanazione da parte di Antioco IV e la riconquista legata alla rivolta dei Maccabei (175-164 ante e.v.). La ‘Amidàh (preghiera delle Diciotto Benedizioni, recitata quotidianamente) benedice Dio che riporta in Sion la propria Shekhinàh (“Presenza”) gloriosa, ricostruisce il Tempio, restaura il culto e assicura prosperità e pace a Gerusalemme. “Chi è sepolto in Éretz Ìsra’el – dice il Talmùd – è come se fosse sepolto sotto l’altare del Tempio”: per la sepoltura (l’uso è variamente testimoniato in Europa) si conserva un sacchetto di terra di Éretz Ìsra’el da porre sotto il capo del defunto, o da mischiare alla terra che ne ricoprirà il feretro, o ancora da porre in due pizzichi sulle palpebre ormai chiuse, perché almeno così egli possa vedere Éretz Ìsra’el. L’insegnamento rabbinico confluito nella Mishnàh (la Toràh orale, fissata tra II e III sec. e.v.) vieta di salire al Monte del Tempio (l’attuale Spianata delle Moschee) per non rischiare di commettere un sacrilegio: già allora non era più possibile, infatti, determinare con esattezza dove si trovasse il cuore del Tempio, cioè la stanza che custodiva l’Arca dell’Alleanza, alla quale soltanto il Cohèn Gadòl (“Sommo Sacerdote”) poteva avvicinarsi, una volta all’anno e a determinate condizioni. Gerusalemme, dice Rambàm (Moshè Maimònide), è il luogo in cui Abramo legò Isacco per offrirlo in sacrificio, in cui incontrò Melchìsedekh e ne ricevette la benedizione; è anche il luogo in cui Noè offrì un sacrificio quando le acque del diluvio si ritirarono; qui, Caino e Abele sacrificavano all’Eterno; qui, Adamo offrì un sacrificio di lode e di gratitudine al termine della creazione del mondo.
Non stupisce che Theodor Herzl, in occasione del II Congresso Sionista (1900), sia rimasto sorpreso dalla forza con cui l’assemblea respinse la sua ipotesi di fondare in Uganda uno Stato ebraico! Non stupisce neanche che migliaia di Ebrei russi, polacchi, tedeschi, ungheresi, ucraini, lituani, religiosi e non religiosi, ardenti di fede o preoccupati unicamente di salvare la propria vita e di dare un futuro ai propri figli, respinti da Paesi che pure amavano e da un’Europa che non potevano più riconoscere, si siano rivolti a Éretz Ìsra’el, e ad essa sia siano diretti – né stupisce che abbiamo desiderato un proprio Stato, e che l’abbiano realizzato proprio in Éretz Ìsra’el”.


5. IL “CICLO DI GERUSALEMME”: IN ASCOLTO
A proposito del “ciclo di Gerusalemme”, Francesco Camera fa notare “come la parola poetica celaniana arrivi a trasporre il dato dell’esperienza individuale in una dimensione di significato universale”; tale significato, aggiunge, “nasce dalle profonde motivazioni religiose che spinsero Celan a intraprendere il viaggio in Israele e a Gerusalemme in particolare. Esse si possono individuare nell’esigenza di chiarire il proprio rapporto con l’ebraismo, affrontando seriamente la tensione tra l’appartenenza alla comunità religiosa delle origini (in cui era forte la tendenza sionista all’emigrazione verso la Palestina) e l’accettazione fatalista della diaspora storica, con la conseguente assimilazione alla società occidentale secolarizzata. La tensione tra queste due vie è uno dei temi principali del ciclo”. Camera sottolinea bene come alla base del viaggio in Israele, più volte rimandato e lungamente atteso, vi sia “l’esigenza di recuperare una Heimat riconoscendo esplicitamente la propria appartenenza al mondo dell’ebraismo orientale, assieme alla ricerca di una comunità culturale e linguistica in cui poter superare la propria condizione di sradicamento” (F. Camera, Paul Celan. Poesia e religione…, p. 119; p. 120).

Iniziamo a leggere. Il volume di Ilana Schmueli, da p. 34 in poi, presenta le liriche del “ciclo di Gerusalemme” commentate dalla Schmueli stessa: si tratta di una lettura intensamente personale, come doveva essere e come il poeta voleva. Celan le inviava le poesie per lettera; “voleva che le sue poesie fossero lette, vissute e capite nel modo più personale” (p. 15); “Celan non parlava mai delle poesie che mi trascriveva e mi leggeva – parlava con esse” (p. 31).

Ecco la prima poesia – scritta, unica nel “ciclo”, prima del viaggio:

MANDELNDE
Da Zeitgehöft, in Paul Celan, Poesie, p. 1304.

MANDELNDE, die du nur halbsparchst,
doch durchzittert vom Keim her,
dich
ließ ich warten,
dich.

Und war
noch nicht
entäugt,
noch unverdornt im Gestirn
des Lied, das beginnt:
Hachnissìni.

PICCOLA MANDORLA
Da Dimora del tempo (traduz. di L. Gobbi)

Piccola mandorla, tu che dicesti solo a metà,
ma tremando nell’intimo, dal seme,
te
ho lasciato aspettare,
te.

Ed ero
non ancora
privato degli occhi,
non ancora trafitto da spine nell’astro
del canto, che inizia:
Hachnissìni.

Celan e Ilana, a Gerusalemme, ripetevano insieme una poesia di Chaim Nachman Bialik, poeta nazionale israeliano, che Celan conosceva a memoria, ma che non ricordava del tutto e che non comprendeva bene: Celan cercava di recuperare e approfondire la lingua ebraica, di ritrovarla.
“Hachnissìni” significa “accoglimi in te”.
C’è un’altra lirica in cui sono nominate le mandorle: leggerla può aiutarci a comprendere questa – è una lirica di Papavero e memoria, cioè del periodo di Bucarest/Vienna, appena dopo la fine della guerra (anche questa possiamo ascoltarla dalla voce di Celan). Il tu, in questo caso, è la madre di Celan, morta nella Shoa: il ricordo, sempre, è amaro nell’intimo; il poeta vuole essere contato tra le mandorle. La mandorla, nella mistica ebraica, è anche il simbolo della fosforescenza divina, cioè della presenza in attingibile di Dio: alla madre morta il poeta chiede di essere contato tra coloro che, amaramente, partecipano del mistero della presenza/assenza di Dio, inattingibili ormai come lui – cioè, chiede di essere contato tra i morti di Israele, pur essendo ancora in vita.
Mandorla è anche la fosforescenza attorno al capo dei santi, nell’iconografia paleocristiana che Celan conosceva bene; è anche frutto amaro (non dolce, come nella tradizione italiana!) tipicamente mediorientale e mediterraneo, che sta ad indicare l’ebraismo perduto, gli scomparsi

ZÄHLE DIE MANDELN
Da Mohn und Gedächtnis
(P. Celan, Poesie, pp. 130-131)

ZÄHLE die Mandeln,
zähle, was bitter war und dich wachhielt,
zähl mich dazu:

Ich suchte dein Aug, als du’s aufschlugst und
niemand dich ansah,
ich spann jenen heimlichen Faden,
an dem der Tau, den du dachtest,
hinunterglitt zu den Krügen,
die ein Spruch, der zu niemandes Herz fand,
behütet.

Dort erst tratest du ganz in den Namen, der dein
ist,
schrittest du sicheren Fußen zu dir,
schwangen die Hämmer frei im Glockenstuhl
deines Schweigens,
stieß das Erlauschte zu dir,
legte das Tote den Arm auch um dich,
und ihr ginget selbdritt durch den Abend.

Mache mich bitter.
Zähle mich zu den Mandeln.


CONTA LE MANDORLE
Da Papavero e memoria (traduz. L. Gobbi)

Conta le mandorle,
contalo, ciò che fu amaro e ti tenne sveglia,
là conta anche me:

lo cercai, il tuo occhio, così come tu lo chiudesti
e nessuno ti poté vedere,
io tesi quel filo intimo,
su di lui la rugiada che tu hai pensato
scivolò giù, fino alle urne:
una parola, che non trovò strada fino al cuore
di nessuno, le custodisce.

Solo là camminasti nel Nome, che ti
appartiene,
con passi sicuri entrasti in te stessa,
oscillarono i martelli, liberi dentro la campana
del tuo silenzio,
ti colpì ciò per cui t’eri messa in ascolto,
distese la morte il suo braccio anche attorno a te,
e andaste, voi, in tre attraverso la sera.

Rendimi amaro.
Conta me tra le mandorle.


Dunque, la “Mandelnde”, “la piccola mandorla”, o “la sempre mandorla” (come traduce Camera; preferisco la prima, che rispecchia l’uso yiddish dei diminutivi, e dunque rientra nel ritrovamento, attraverso Ilana e Israele, del mondo perduto di Czernowitz; respingerei la traduzione di Bevilacqua, “viso di mandorla”, anche se non è senza ragioni; ma orienta in una direzione unica la lettura, che è bene resti aperta), è qualcosa di ebraico e familiare (in questo senso il diminutivo), personale e sovrapersonale insieme, presente e passato; qualcosa a cui si può dire “tu”: è Gerusalemme e Ilana al tempo stesso, Gerusalemme israeliana e Sion della profezia messianica, la donna e la terra, la tradizione perduta che si è nuovamente fatta presente, invitando: amara, e salvifica insieme. Essa ha chiamato, dicendo “solo a metà”: l’incontro possibile non è ancora avvenuto, per colpa del poeta – è lui che l’ha “lasciata aspettare” anziché cercarla da tempo – proprio lei ha lasciato aspettare: e l’attesa colpevole, chissà come, suscita in risposta un canto che è gioia e trafittura insieme, che apre orizzonti, che è cielo: “accoglimi in te”, nella lingua di Gerusalemme (di Sion e d’Israele, di Ilana e della preghiera dell’ìnfanzia, delle profezie e delle leggi: la lingua perduta e ritrovata ora in Israele, dove è rinata una volta per tutte con la fondazione dello Stato).
La Schmueli ci racconta che “del parlare a metà si parlò poi spesso, e anche del dover parlare del tutto” (p. 36): portare a compimento una parola iniziata e poi lasciata a mezzo, non conclusa – la cui conclusione, fino ad ora, non era stata coscientemente cercata. Così dice la poesia di Bialik: “Accoglimi in te, sotto le tue ali: sii per me madre e sorella, sii per me il grembo, sii per me il rifugio, nella mia pena”.

La mandorla, come s’è detto, rimanda a un contesto teofanico: la donna e la città lasciano vedere quella fosforescenza che è segno della presenza del Divino. Il passato yiddish, l’ebraismo dell’Eropa centrale, è ora in Israele: in una nuova vita, nella terra della promessa. Solo a metà Celan l’ha potuto ascoltare: le vicende della Shoa e la sua personale diaspora l’hanno portato a non ascoltare più, a lasciar attendere questo nucleo intatto di ebraismo originario, reso nuovo e vivissimo, che è Gerusalemme/Israele/Ilana. L’ebraismo originario gli disse poco, ma era attraversato (durch) da un tremito intimo: la forza dell’identità ebraica, del “seme di Abramo” che dimora in Ilana/Gerusalemme/Israele. Il canto finale, in cui Celan ritrova la lingua ebraica, come s’è detto, è l’inizio di una poesia di Bialik: “accoglimi, custodiscimi” – la quale riprende a propria volta il Salmo 17, 8: “custodiscimi be-tzél kenafékah, all’ombra delle tue ali”.

A Ilana, Celan trascrive e legge una poesia che confluirà poi in Lichtzwang (Luce coatta), anch’esso pubblicato postumo: una lirica scritta poco prima del viaggio, nello struggente desiderio di Gerusalemme. L’ebraico vi compare come il riemergere di un mondo perduto; all’inizio, il medioaltotedesco di Meister Eckart, nel suo Sermone su Isaia 60, 1; nella chiusa, in caratteri ebraici, la citazione di Isaia 60, 1 (“Sorgi, rivestiti di luce, / perché viene la tua luce…”):


DU SEI WIE DU
(Poesie, p. 1090)

DU SEI WIE DU, immer.

Stant vp Jherosalem inde
Erheyff dich

Auch wer das Band zerschnitt zu dir hin,

inde wir erleuchtet

knüpfe es neu, in der Gehugnis,

Schlammbrocken schluckt ich, im Turm,

Sprache, Finster-Lisene,

kumi
ori.


TU SII COME TU (traduz. L. Gobbi)

TU SII COME TU, sempre

Alzati, Gerusalemme, ora
sollevati

anche chi ruppe il vincolo verso di te,

ora sarà
illuminato

bocconi di fango ho ingoiato, nella torre,

linguaggio, buio-lesèna

sorgi
illumina.


Colpisce la definizione di linguaggio: buio-lesena – Celan era maestro nel linguaggio: la Shmueli vede qui “tutte le sue lingue, tutte le sue torri, anche le torri di lingua di sempre, e ora anche le torri di Gerusalemme”; e ricorda “la lingua particolare della sua poesia, Czernowitz, che sempre consuona, i russi, i canti dell’insurrezione, Mandel’stam, lo yiddish, l’ebraico della sua infanzia, il romeno, il suo studio delle lingue romanze, il suo francese, il fascino buono e cattivo di Parigi”; e testimonia che, a Gerusalemme, Celan voleva assegnare a questa poesia “un posto particolare” (p. 31).

Gerusalemme e Ilana si fondono l’una nell’altra: a entrambi, Celan si presenta chiedendo timidamente accoglienza. Si tratta di una stratificazione di significati, o meglio: di una compresenza di significati, nella quale l’uno non esclude l’altro, in una pluralità dinamica, ricca di echi e rimandi, e carica di vita vissuta – non di “letteratura”: questo aspetto non va dimenticato, mai: non si tratta di “testi”, ma di veri dialoghi, di parole denso di esperienza concreta che intercorrono tra un uomo e un mondo, una donna, una città, una storia, una tradizione, un futuro forse possibile, una speranza, un’identità; e anche tra noi, con le nostre esistenze reali, le nostre speranze, i nostri lutti e i futuri possibili; si tratta di verità disarmate e disarmanti, che si offrono a noi.

Attorno a Ilana c’è Gerusalemme:


ES STAND
(P.Celan, Poesie, p. 1306)

ES STAND
der Feigensplitter af deiner Lippe,

es stand
Jerusalem um uns,

es stand
der Hell kiefernduft
überm Dänenchiff, dem wir dankten,

ich stand
in dir.


ERA (traduz. L. Gobbi)

ERA
la scheggia di fico sul tuo labbro

era
Gerusalemme attorno a noi

Era
il profumo del pino chiaro
attorno alla nave danese, alla quale dicemmo grazie,

io ero
in te.


I luoghi di Gerusalemme appaiono assieme a Ilana e al poeta stesso: qui, appare il monumento ai pescatori danesi che, a rischio della vita, portarono in salvo gli ebrei verso la Svezia, che si trova vicino a dove Celan alloggiava. Lo stupore è che Gerusalemme è intorno a loro: l’essere circondato da Gerusalemme, il mangiare assieme dei fichi lungo la strada, il venerare le memorie della salvezza di pochi nel ricordo della morte di molti, l’essere nella Gerusalemme ebraica rinata, ritrovata, riconquistata, diventa per Celan oggetto di stupore: Gerusalemme si estende attorno a loro, esiste, si espande, occupa fisicamente lo spazio, si erge nella propria concretezza (in questo senso “es stand”; la Shmueli fa notare come “stehen” fosse per Celan una parola estremamente significativa, che ricorreva nelle lettere e nelle poesie; si veda p. 37). Essere in Gerusalemme significa essere in Ilana: nella sua vita, nel cuore della sua identità di ebrea scampata e divenuta israeliana; Ilana è gerosolimitana, ed è al contempo Gerusalemme; la città è l’identità ritrovata, riconquistata – o meglio: che ha suscitato la speranza di poter essere nuovamente ottenuta. “Stehen” può voler dire anche, fa notare ancora la Shmueli, “significa anche star scritto. Io stavo in te scritto come in un libro, nel tu – in Gerusalemme” (p. 37). Celan è arrivato: la domanda di accoglienza è stata accolta.

Altre volte, in quello stesso periodo, Celan aveva pronunciato una domanda di accoglienza: la più struggente si trova in sempre in Zeitgehöft; traggo qualche riga dal mio Carità della notte, di prossima uscita presso le Edizioni Servitium (pongo il passo tra parentesi quadre, per distinguerlo dal resto):


KLEINE NACHT
P. Celan, Zeitgehöft (Dimora del tempo), nel suo vol. Poesie, p. 1286


[KLEINE NACHT: wenn du
mich hinnimmst, hinnimmst,
hinauf,
drei Leidzoll überm Boden:

alle die Sterbemäntel aus Sand,
alle die Helfenichtse,
alles, was da noch
lacht
mit der Zunge -.


NOTTE PICCINA (traduz. G. Bevilacqua)
Notte piccina: se tu
mi accetti, mi accetti,
lassù,
tre cubiti di dolore sopra
terra:

tutte le vesti di sabbia
entro cui si muore, tutti
i vani soccorsi, tutto, ciò che ancora
con la lingua ride -

E’ piccola la notte di Celan: è l’umile notte della terra, una soltanto tra le miriadi di notti che popolano l’universo - più piccola dei suoi figli di luce affaticata: i “vani soccorsi”, i mattini.
L’asprezza del sostantivo tedesco Nacht è mitigata dal dittongo -ei-, che risuona inatteso tra le consonanti -l- ed -n-, rispettivamente liquida e nasale, dell’aggettivo kleine; fedeli alleate, esse sembrano introdurci in un’aura trasognata di dolcezza: un sussurro di risacca, o un tenue sciabordio di mare, mobile e calmo - come nel mite suono ebraico, laylah.
Laylah, laylah... è una parola che si ripeterebbe all’infinito, a mezza voce: forse, perché rinnova in se stessa due sillabe semplici come un canto di culla. Laylah... la mia notte. Lei sola, forse, avrebbe potuto portarmi al di là d’ogni cosa, benché non molto lontano: “tre cubiti di dolore sopra / la terra”. Sarebbe bastata perché potesse sussistere, in un’armonia impensabile qui, tutto ciò che è puramente umano: la morte, la speranza, la gioia.
Avrebbe accolto anche me, “lassù”, con carità perfetta? L’invocazione era anch’essa ripetuta - nell’umiltà della supplica, nella tenerezza sincera della confidenza: “se tu / mi accetti, mi accetti”... Il luogo desiderato: vicino, vicinissimo; il dolore, già in mio possesso. La madre dei mattini avrebbe potuto donarmi questa grazia.]

Celan scrisse a Ilana: “anche rivolger la parola è toccare” (p. 77). Questo dare del tu, a Gerusalemme, a Ilana e alla notte è davvero un protendersi, un cercare l’abbraccio. La notte fu la prima a dare risposta – o meglio: fu lei che accolse la supplica.
Ilana ci racconta (pp. 32ss): Celan tenne alcune conferenze: un breve discorso all’associazione degli scrittori di Tel Aviv; una lettura pubblica, alla quale intervenne l’associazione dei profughi da Czernowitz, “che si radunò curiosa di ascoltare il famoso poeta tedesco che avevano conosciuto da bambino. Pretenziosa contiguità epidermica, cose conosciute e non più conosciute, pseudointimità, benevolo malinteso e incomprensione. Sedevano davanti a lui e lo interrogavano, lo attorniavano, troppo vicini e molto lontani. Gli parlavano, lo interrogavano. Tutto lo aggrediva, in modo duro e concreto. Celan leggeva circondato dall’allora, e vi era in lui la più grande solitudine. Qui gli divenne chiarissimo ciò che in ogni caso era già chiaro da tempo nella sua vita: l’invincibile estraneità, che era il suo destino…. Doveva sempre sperimentare nuovamente questa solitudine… E si fece orfano. Anche qui. Sapeva che anche qui non poteva appartenere e ne fu colpito in modo dolorosissimo, quasi fuggì. Il 17 ottobre lasciò il paese prima del previsto; non andò più a Massada, ed era una rinuncia. Diceva: non l’ho meritato. Celan lasciò Israele gravato di tutto il peso del suo destino più personale, gravato da amore e preoccupazione per il paese che non poteva divenire il suo” (p33).
Meraviglioso il resoconto di Ilana, nel suo altissimo pudore e nella sua esattezza – pudore ed esattezza: impensabili l’uno senza l’altra. Nulla da aggiungere alle sue parole.

Leggiamo un’ultima lirica, I POLI – un celaniano Cantico dei cantici, dice la Shmueli, struggente:


DIE POLE da Zeitgehöft, in Paul Celan, Poesie, p. 1324.

DIE POLE
sind in uns,
unübersteigbar
im Wachen,
wir schlafen hinüber, vors Tor
des Erbarmens,

ich verliere dich an dich, das
ist mein Schneetrost,

sag, das Jerusalem i s t,

sag, als wäre ich dieses
dein Weiß,
als wärst du
meins,

als könnten wir ohne uns wir sein,

ich blättre dich auf, für immer,

du betest, du bettest
uns frei.

I POLI (traduz. L. Gobbi)
I POLI
sono in noi,
impossibili da superare
nella veglia,
noi dormiamo attraversando, per la Porta
della Misericordia,

perdo te per te, questa
è la mia consolazione di neve,

di’, che Gerusalemme e s i s t e,

dillo, come se fossi io questo,
il tuo bianco,
come se fossi tu
il mio,

come se potessimo senza di noi essere noi,

io sfoglio te, per sempre,

tu preghi, tu ci poni a giacere
liberi.


Il progetto, appena accarezzato, di una nuova vita a Gerusalemme, era destinato a fallire: Celan se n’era reso ben conto quando scrisse a Ilana, da Parigi, questa poesia (egli viveva, da tempo, consensualmente separato dalla moglie).
E’ una poesia tragica e splendida, estrema nelle sue conseguenze. In breve: tra colei che da Czernowitz andò in Israele e l’esule che da Czernowitz si smarrì nella diaspora, c’è una distanza insormontabile – sono come i due poli opposti della terra. Solo nel sonno – nella morte – si potrà superare tutto ciò, non nella vita presente. La porta delle misericordia è una delle porte di Gerusalemme, quella da cui entrerà il Messia, vicino al muro del Tempio: nei suoi pressi i pii si facevano seppellire, per essere tra i primi a risorgere al cenno del Messia e ad entrare con lui in Gerusalemme. Ha significato funebre anche il “giacere” dell’ultimo verso, con un gioco di parole tra beten, “pregare” e betten “mettere a giacere, coricare”, anche “seppellire”. La Porta della Misericordia, nei fatti, è una porta murata al cospetto di una moltitudine di morti.
Gerusalemme continuerà ad esistere, Gerusalemme esiste: anche se il poeta è perduto, la città e la donna resteranno perché esistono: è una “consolazione di neve”, una consolazione fatta di materia funebre, cioè della consapevolezza inevitabile della propria morte, anzi: della necessità assoluta della propria morte. E’ questa la libertà dello scampato. Pregando, rimanendo a Gerusalemme, vivendo con Gerusalemme e come fusa con le mura e le strade, la donna gli dona questa libertà.
E’ una poesia da ascoltare bene, nel tempo e con calma: perché davvero Gerusalemme esiste. Grazie.

Nessun commento: