mercoledì 28 giugno 2017
IL VIETNAM DI KIM THUY
La
prima volta che l'ho vista, era appollaiata su in divanetto foderato
di cretonne a fiori.
Il
salottino era silenzioso, la luce delle ore più calde del giorno
filtrava attraverso le foglie della vita americana che incorniciava
le finestre.
Un
abito bianco in lino leggero, fra le mani un blocco: stava
disegnando.
Il
mio arrivo l'aveva fatta sussultare. Un sorriso discreto sul volto
orientale e quasi una fuga alla ricerca di un nuovo silenzio.
Era
lei, lo sentivo, anche se come spesso accade non riuscivo a
sovrapporre l'immagine reale a quella delle foto che la ritraevano.
Mentre
la compagnia allegra, che aveva disturbato la sua concentrazione,
proseguiva la visita della casa, lei si è spostata all'ombra del
portico d'ingresso, sotto un roseto meraviglioso che invadeva con il
suo profumo l'intero cortile.
Era
una bella immagine, la guardavo attraverso i vetri al piombo delle
finestre: ispirava tranquillità.
Avevo
letto il suo ultimo libro in poche ore. Era il terzo. Raccontava come
i due precedenti il suo paese di origine, la sua fuga rocambolesca,
la sua nuova patria, la sua nuova famiglia.
Così
ho incontrato Kim Thuy. Prima i suoi libri mi sono venuti incontro,
prima la sua storia attraverso due oceani è arrivata da me, poi la
sua stretta di mano e il suo sorriso, sincero contagioso
coinvolgente, di persona bella.
E'
esuberante Kim, il suo abito sembra una vela, le sue braccia sempre
aperte in un abbraccio.
Mi
era apparsa diversa racchiusa fra le pagine: più orientale, più
riservata, più timida. Kim invece è radiosa, passa dall'inglese al
francese a qualche parole di italiano, scherza, ride, contamina. E
racconta. Racconta di quando è arrivata in Canada, lasciandosi alle
spalle il Vietnam, la paura e l'orrore della guerra e dei campi
profughi. Racconta il primo abbraccio e lo stupore di
quell'abbraccio, per lei, ragazzina orientale, nella cui cultura il
contatto fisico non era mai esistito prima. La meraviglia di ricevere
sorrisi: com'era possibile una simile accoglienza nei confronti di
tanti rifugiati, male in arnese, sporchi, affamati, brutti? La
sensazione di quel momento magico in cui, dopo l'incredulità, ti
specchi nel sorriso di chi sta di fronte e ti senti in una qualche
modo bella.
Perché
è la bellezza che va preservata, quella che salverà.
E
Kim è bella. Per quello che dice, per come lo fa, per come ti fa
sentire.
Il
mio Vietnam è l'ultimo libro di Kim Thuy, pubblicato in Italia
da Nottetempo, come i due precedenti Riva (2010) e Nidi di
rondine (2014), tutti con
la traduzione di Cinzia Poli.
Il
suo Vietnam è di uomini e donne, tra tradizione, guerra, periodo
postbellico. Gruppi familiari frantumati e ricosituiti. Necessità di
sopravvivere e di ricomporre una diversa umanità altrove. Il suo
Vietnam è l'essenza di tutti i suo romanzi.
La
sua scrittura è limpida, a volte seria, a volte ironica. Ritrae i
personaggi, guardandoci dentro, spogliandoli ogni artificio.
In
Riva c'è la storia di una bimba, in Nidi di rondine la
bambina cresce, in II mio Vietnam la bambina è diventata
adulta. Cambia il nome, ma la bambina è sempre la stessa, è Kim. La
vicenda sembra sempre la stessa, ma ogni volta si aggiungono
particolari, consapevolezza, maturità, che la rendono nuova.
Quando
chiudo un libro di Kim Thuy sull'ultima pagina, ho la sensazione che
lei mi abbia affidato un pezzetto del suo cuore per rendermi
partecipe di una storia importante, così personale e universale
insieme.
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