lunedì 26 maggio 2008

A SARAJEVO, FRA LE MACERIE, CON UN VIOLONCELLO

Ho trascorso una domenica particolare. Ho fatto un viaggio, nel tempo e nello spazio. Sono tornata negli anni '90, nella primavera del 1992. Sono andata a Sarajevo, in compagnia di un giovane scrittore canadese: forse non è la guida migliore per un simile viaggio, ma promette bene.
Comincia a raccontare la sua storia, la storia di tutti noi, e la storia di quella città, di tutte le città in guerra, da quanto gli hanno riferito coloro che se ne sono andati via.
Ricostruisce dai loro ricordi, dalle loro immagini, dalle loro fotografie la fine di maggio di sedici anni fa. Lo fa con parole semplici, attraverso tre persone che vivono nella Sarajevo assediata. Poco importa se Freccia, Dragan e Kenan siano davvero esistiti: per certo ci sono state centinaia, migliaia di persone come loro. Poco importa se chi racconta è stato o meno nella ex Iugoslavia: dalle sue parole si percepisce la paura, la rabbia, l'amore, la desolazione. Si sente l'odore della polvere da sparo sulle dita, l'odore del terrore, l'odore del sangue, la polvere, il silenzio e lo scoppio delle granate.
Non si va alla caccia dei colpevoli. Sono le persone comuni, che si incontrano: persone, persone che cercano una normalità in una città stravolta. Uomini la cui occupazione è quella di procurare l'acqua per la sopravvivenza della famiglia, o il pane, o le medicine.
Non ci sono Serbi, Bosniaci, Croati, musulmani, cristiani, ebrei. Sono persone. Persone che ogni giorno devono sfuggire alla morte e che ogni giorno, per questo, rinunciano alla vita.
Il 27 maggio 1992 in via Vaso Miskin un gruppo di persone attende il pane. Il 27 maggio 1992 "gli uomini delle montagne" a colpi di mortaio uccidono 22 persone. Per 22 giorni, apartire dal 27 maggio, Vedran Smajlovic, unico sopravvissuto di un quartetto d'archi di Sarajevo, indossa lo smoking, prende il suo violoncello, si accomoda fra le macerie di Vaso Miskin e suona l'Adagio di Albinoni. 22 volte, una per ogni vittima, incurante dei cecchini, incurante di chi, come lui, sfida la brutalità della guerra per riprendersi il valore della vita. Perché "c'è un istante prima dell'impatto, l'ultimo in cui le cose sono come sono state. Poi il mondo visibile esplode".
Il racconto di una guerra, l'episodio realmente accaduto del violoncellista di Sarajevo, per ricordare quanto sia preziosa la normalità della vita, sempre.
Il mio accompagnatore è stato Steven Galloway con il suo Il violoncellista di Sarajevo, edito da Mondadori con la traduzione di Paola Bertante.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Un libro toccante. L'assedio di Sarajevo oltre a presentare la drammaticità oggettiva in cui questo popolo è caduto.Potrebbe essere la metafora di una condizione esistenziale dalla quale nessuno può sentirsi escluso. Gli esempi ultimi della Storia più recente sono tracce di un vissuto che ognuno dovrebbe far proprio.